sabato 15 novembre 2008

Sport e Integrazione

Polisportiva URBAN
dr. Ugo REGGIANI
sociologo
Progetto per l'integrazione dei giovani in una società multietnica
Studio preliminare - Argomenti sociologici

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1)-L’uomo, risultato di un prodotto scientifico
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2)-Il se' profondo
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3)-I fatti sociali
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4)-L'uomo frutto di un progetto divino
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5)-L’altro premessa storica, antropologica del progresso sociale
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6)-L'altro come condizione di diversita' di un genere umano
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7)-La diversita' culrurale come patrimonio e paradigma dell'umanita'
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8)-L'uomo nella sua dimensione di diversita'
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9)-La diversità nasce in noi stessi
10)-Il pregiudizio sociale, conseguenza radicale della propria diversità
11)-La diversità come premessa creativa dello sviluppo socio-culturale dell’uomo.
12)-Fenomeni sociali determinanti la diversità.
13)-La paura di vivere la diversità.
14)-Strumenti di integrazione in una società multietnica
15)-Lo sport premessa per uno sviluppo socioculturale del genere umano.
16)-Lo sport, in particolare il calcio, condizione di accrescimento socio-culturale e formativo dell’ uomo in una società multietnica.
17)-Descrizione degli obiettivi del progetto a breve, medio e a lungo termine per integrare i figli degli immigrati nella sfera sportiva-calcistica.
18)-Approccio qualitativo e quantitativo a confronto
19)-Conclusioni.

1)-L’uomo risultato di un prodotto scientifico
Potrei fornire due definizioni dell’uomo.
La prima, secondo la quale, la creazione dell’uomo è il risultato di un prodotto scientifico, dove la
finalità esclusiva della propria sopravvivenza sulla terra, è, se lo sia analizza all’interno di una
prospettiva antropologica la ricerca della propria felicità.
Antropologicamente, l’uomo raggiunge, a causa di un suo esasperato livello di insoddisfazione,
causato dalla mancanza del raggiungimento degli obiettivi prefissati, una fase
definita : soglia, dove idealmente egli risulta soddisfatto della sua vita, ma in realtà no lo è.
Egli, nel momento in cui vive nel suo in coscio questa dimensione, tende ad annullare totalmente
il proprio io, identificandosi nell’altro.
Cosi facendo, tende a rivestire diverse maschere, commisurate ai contesti sociali operanti in
cui interagisce con gli altri..
Secondo una massima pirandelliana: l’uomo è <> , perché è uno solo, nella sua integrità,
,perché vive infiniti ruoli nella propria esistenza quotidiana, e, il risultato di questo
conflitto fra uno e centomila è , cioè tende ad annullare radicalmente l’immagine che è di
sé stesso.
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2)-Il sé profondo
Nel considerare la figura dell’uomo secondo una prospettiva sociologica, il corso della sua vita è
formato radicalmente da tre fasi: l’esteriorizzazione, l’interiorizzazione, e l’oggettivizzazione.
La prima fase riguarda la dimensione della figura umana , cosi come viene rappresentata.
La seconda risulta essere una fase più articolata è complessa, perché rappresenta il cosiddetto sé
profondo, cioè la dimensione intima di ogni essere umano.
La terza fase, l’oggettivizzazione si determina nel momento in cui si verifica l’alienazione, cioè
l’annullamento dei tratti caratteristici della propria personalità.
Due aspetti preziosi della dimensione del sé profondo ce li cita Goffman , sociologo,
in un opera da lui scritta: “La vita come rappresentazione teatrale” e sono quello di scena e
retroscena.
Per scena, si intende la manifestazione dell’agire dell’uomo nella sua realtà quotidiana, il
concetto chiave di retroscena è quello in cui si manifesta l’agire umano nella sua interiorità.
A causa delle circostanze della vita quotidiana, e poiché siamo continuamente vittime dei pregiudizi sociali esterni non è possibile mai esprimere realmente la propria identità, altrimenti si correrebbe il rischio di ferire la sensibilità degli altri.
Per poter ristabilire un proprio equilibrio psico- fisico all’ interno dell’uomo è necessario che siano rispettate delle regole, che si chiamano fatti sociali.
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3)-I fatti sociali, strumenti di realizzazione del progresso sociale umano.
Questi tendono ad istituire un livello di stabilità all’interno dell’individuo.
In assenza non è possibile stabilire un livello di ordine sociale. ( Emile Durkeim).
La mancanza sistematica di esse determina radicalmente l’anomia, quindi un livello di
disordine sociale, per poi sprofondare nella devianza.
La devianza , appunto è il divieto assoluto di questi principi, che fa crollare il soggetto nella crisi
della propria identità e nello smarrimento di sé stesso.

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4)-L’uomo, frutto di un progetto divino
Secondo i valori del cristianesimo, l’uomo è stato creato secondo un progetto ben specifico da
un’entità soprannaturale.
Dio è ,nel rapporto creatore-creato, il Creatore assoluto di tutto il mondo.
La vera rivelazione del Cristiano o del Cristianesimo, non è tanto nel riscoprire uno stadio di
felicità di tipo egoistico e individualistico tramite l’uomo, ma di cogliere questa dimensione
attraverso una condizione di eternità, dove il figlio di Dio, Gesù Cristo, si è fatto uomo, si è caricato dei nostri peccati, morendo sulla croce, per dimostrarci che attraverso la sofferenza si giunge alla gloria, e quindi la vita eterna dopo la morte.
Per guadagnare tutto ciò è necessario rispettare i dieci comandamenti divini, e testimoniare con la vita di grazia e partecipando al sacramento dell’eucarestia il vero significato prezioso del
cristianesimo.
Tutto questo accade nella partecipazione della messa domenicale, dove si rivive il sacrificio di Gesù sulla croce, e dove il cristiano nutrendosi del corpo e sangue di Cristo, entra nella vita.
La buona notizia del cristianesimo è credere fermamente nella resurrezione di Cristo, perche’ sarà cosi per tutti noi.

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5)-L’altro, premessa storica ed antropologica del progresso sociale.
Una volta citate le due categorie fondamentali riguardanti la creazione dell’uomo, vi e’
un altro aspetto importantissimo della nostra ricerca, l’impossibilità dell’esistenza dell’essere
umano senza la presenza indispensabile dell’altro.
L’uomo da solo non potrebbe esistere, l’altro diventa quindi una premessa storica e antropologica del progresso sociale.
Chi è l’altro? E perché l’uomo non può vivere senza di lui?
Per rispondere a questi interrogativi, bisogna riflettere sulla dimensione della vita.
Cos’è la vita?
Nella nostra realtà sociale quotidiana, e’ , competizione, confronto, conflitto con sé stessi , ma
soprattutto un modo attraverso il quale il soggetto tende a riscoprire la parte migliore di sé stesso.
Difatti improvvisamente ci troviamo proiettati di fronte a non uno ma a due orizzonti di pensiero
completamente differenti che determinano un loro specifico stile di vita.
Se non esistesse l’altro non potrebbe esserci diversità.

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6)-L’altro come condizione di diversità del genere umano.
L’immagine dell’altro, ovviamente, riflette la dimensione della diversità.
Il diverso è colui che, sia per ragioni di tipo fisico, psichico, culturale, fa parte del nostro stesso
mondo sociale, ma vive una situazione completamente divergente.
Egli può essere un disabile, sordomuto, cieco, omosessuale, zoppo, e cosi via, potrei aggiungere
infinite figure ancora, ma soprattutto cio’ che intendo sottolineare è che risulta essere una persona che a causa della sua eterogeneità sviluppa, lungo la dinamica della sua evoluzione umana, uno stile di pensiero completamente opposto a quello di una persona definita normale,

Questa persona, non solo deve arduamente combattere contro i pregiudizi del mondo, ma
deve convivere, dramma ancora più profondo, con la dimensione della sua stessa problematica..
Comincia cosi una battaglia veramente catastrofica, causata dalla fragilità nell’ affrontare la sua
diversita’, e, nello stesso momento, maggiormente ancora più ripudiante è l’impossibilita da parte della nostro sistema sociale di accettarlo per quello che è.
Il più delle volte se il soggetto è terribilmente debole può cadere in una forte crisi depressiva. con conseguenze estreme..
Il diverso non e’ un ostacolo alla realizzazione del progresso sociale.

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7)-LA DIVERSITA ’ CULTURALE COME PATRIMONIO E PARADIGMA DELL’UMANITA’.
Un chiarimento preliminare sulla locuzione “diversità culturale”: locuzione, questa, concettualmente polisemica, che si espone a molte possibili interpretazioni, usi ed abusi. La “diversità culturale” come un allargamento emotivo e concettuale (nel senso kantiano di mente larga: una mente, cioè, in grado di aprirsi ai diversi punti di vista), un arricchimento, un dialogo, un incontro, uno scambio. Su un altro piano è possibile riconoscere, di volta in volta, in chi la esprime, l’ospite, l’amico, il fratello; in altre parole, una reciprocità, una mano tesa, un sorriso, un’intesa.
Ad esempio, al termine di un incontro potremmo rafforzare o, al contrario, rimettere in questione i nostri valori. Ancora, potremmo esser sollecitati da domande destabilizzanti che ci spingono ad inaugurare nuovi orizzonti di ricerca. All’opposto, la “diversità culturale” potrebbe assumere il volto inquietante del nemico, dell’invasore, di colui che nega la tradizione, la libertà intellettuale, la ricerca scientifica, il nostro senso della verità e della bellezza. Essa potrebbe manifestarsi come inimicizia assoluta, ostilità dichiarata per ogni forma di convivenza, di co-esistenza, di reciprocità, di diritto. Finanche di odio verso i nostri sentimenti vitali: odio che non ammette alcuna diversità e nessun altro punto di vista. Come preservare e valorizzare, in entrambe le situazioni, la diversità culturale? Nel primo caso è l’incontro, con la sua luce, a definire la differenza e a tracciare un confine con l’ombra. In questo luogo della philia, il valore della relazione, nella diversità, nasce dal riconoscersi diversi. Dopo quest’incontro, io saprò qualcosa in più di un altro pensiero, di un altro linguaggio, di un altro sguardo, e lo stesso accadrà per l’uomo che incontro. Da quel momento la nostra amicizia vivrà in questa distanza: ammessa, riconosciuta, apprezzata. Ognuno farà con l’altro un tratto di strada. Si sorprenderà. Si ricrederà. Riformulerà le proprie domande. Si sforzerà di comprendere il linguaggio dell’altro. In questo nostro diventare cammino nessuno dei due penserà che il dialogo possa essere persuasione o conversione necessarie, annessione delle ragioni dell’altro. Questo ri-conoscersi nel dis-conoscersi del nostro incontro restituisce momenti di felicità intensa. Nel senso che ognuno di noi cambierà volontariamente. Spontaneamente. Diventando se stesso. Cioè, un altro. Questa civiltà delle relazioni umane non viene da un umanesimo ingenuo o dalle buone intenzioni. É espressione di una tradizione determinata e riconoscibile del nostro mondo: questo mondo intriso di indifferenza, di odio, di violenza. Si tratta di uno stile e di un ethos che hanno attraversato, come un filo rosso, la cultura occidentale e la saggezza orientale; uno stile ed un ethos aperti alla piena comprensione delle condotte, dei riti e delle emozioni dell’altro (come ha mostrato in Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss), che hanno i loro fondamenti nella dignità della cultura della persona umana, nel messaggio biblico ebraico-cristiano, nelle poleis greche antiche, nella cultura rinascimentale; uno stile e un ethos che esistono (e resistono) fuori dal conformismo delle identità e degli idoli collettivi, tra uomini indipendenti con una forte etica della convinzione e della responsabilità. Voglio dire che la cultura della diversità fiorisce fuori dalla retorica della “diversità culturale”. Perché quando prevale quest’ultima prende forma un paradigma della relazione inter-culturale che appiattisce e uniforma il dialogo tra le (e nelle) culture, fino ad assumere i valori e i saperi in un ordine convenzionale necessario, fatto di buone intenzioni ma indifferente alla diversità e all’alterità. Questo paradigma – che impone al centro della scena una notevole quota di indifferenza per le radici, le storie, le fedi e le domande di senso delle rispettive culture – avversa la grandezza e la potenza creativa. Per il timore che la fragile maschera delle buone maniere si frantumi, il dialogo diviene un simulacro fatto di sole regole e che riduce le grandi questioni a una grammatica inter-culturale. Ma che dialogo è quello che mette ai margini le questioni controverse per esercitarsi su rassicuranti convenevoli, che aggira le differenze tra le idee, le passioni, la ricerca, quando invece sappiamo bene che il cuore di ogni cultura e di ogni ricerca batte là dove ci si apre alla sorpresa e alla scoperta? I grandi testi che leggiamo, studiamo e amiamo – e che speriamo vengano letti dai nostri figli e dai figli dei nostri figli (a modo loro, che è diverso dal nostro) – non sarebbero mai nati – non sarebbero stati nemmeno concepiti – in un mondo regolamentato da norme inter-culturali: perché, prima di tutto, le culture, per dare il meglio di sé, debbono essere se stesse. Le grandi opere dello spirito custodiscono in sé gli archetipi originari, i valori del proprio tempo, le speranze avvenire. Nella loro potenza creatrice esprimono l’identità dell’autore e del testo e, in modo del tutto spontaneo, la diversità dell’altro da sé.
Penso alla Bibbia. Non è forse il Libro dell’eccedenza, della sovrabbondanza della parola, della trascendenza, dei casi-limite della fede e del dubbio? Non è forse, così com’è – tramandato nelle migliaia e migliaia di interpretazioni e commenti ebraici, cristiani, laici – il Libro della diversità culturale per eccellenza, che elude da migliaia di anni quella fraternità astratta, esposta ed arrischiata che chiamiamo esegesi? Non è proprio per questa sua condizione di Libro che ri-chiama, interminabilmente, interrogazione ad interrogazione, parola a parola, senza mai rispondere, anche una scuola della fraternità e della condivisione? Quale parola filosofica potrebbe sopravvivere a passaggi come “Voltati, non guardarmi, altrimenti brucerai” del Dio di Israele che parla al Mosè delle ‘tavole della legge’ con il successivo “Presso il Roveto ardente parlarono come amici”. Quale concetto potrebbe sopportare l’oltranza insostenibile, il dolore implacabile e la verità di fede del Libro di Giobbe?Perché i poemi omerici – che vedono entrambi gli eserciti in conflitto sottomessi alle oscure leggi del Fato – esprimono tanta poesia nella pietas per i vinti? Perché il pius Aeneas – eroe dell’Eneide di Virgilio, destinato alla gloria della fondazione imperiale di Roma – combatte solo dopo essere stato gravemente provocato ed è così intimamente toccato dalla pietà per i giovani troiani uccisi? Cos’è questa pietas per i vinti se non la rappresentazione della pluralità interna dell’uomo? La Commedia di Dante – che attraversa le fonti bibliche, virgiliane, tomiste, – parla alle culture di tutte le epoche ed è un’opera altissima per la sua ricchezza polisemica, polilinguistica, per la varietà dei suoi personaggi. Rappresenta un paradigma della “diversità culturale”, perché per penetrarne e amarne la bellezza e la verità non è necessario condividere le idee dell’autore. Un grande critico contemporaneo, ricordando l’ammirazione di Borges per Dante, ha scritto: “La sproporzione è la via regia di Dante al sublime. Al pari di Shakespeare egli riesce a venire a capo di ogni cosa, perché entrambi i poeti trascendono i limiti di altri poeti. La pervasiva ironia (o allegoria) dell’opera di Dante consiste nella sua asserzione di accettare i limiti proprio mentre li vìola. Tutto ciò che in Dante c’è di vitale e originale, è arbitrario e personale, e pure è presentato quale la verità, consonante con tradizione, fede e razionalità”.
Per altri versi, il grande teatro di Shakespeare anticipa la rappresentazione della psiche plurale dell’uomo moderno e dell’infinità varietà dell’azione umana. L’arte di Shakespeare contiene “[…] il trauma di un’arte verbale più ampia e più definitiva di ogni altra cosa, al tal punto suasiva da sembrare che non sia affatto un’arte ma qualcosa che c’è sempre stato”. Né Dante, né Shakespeare, rappresentano “[…] un accidente o il prodotto di un eurocentrismo sovradeterminato. Con ogni evidenza, il fenomeno di una stupefacente eccellenza letteraria, di potenza di pensiero, caratterizzazione e metafora tale da sopravvivere trionfalmente a traduzioni e trasposizioni e da catturare l’attenzione praticamente in ogni cultura, esiste davvero”. Shakespeare è per la letteratura di tutti i tempi quel che Amleto è per la sfera immaginaria del personaggio letterario: uno spirito che penetra ovunque, che è impossibile confinare. L’intero teatro di Shakespeare è espressione emblematica della diversità culturale. In questo senso, il tentativo di normalizzarlo in nome di una pretesa “diversità” – mi riferisco a quella ‘scuola del risentimento’ che è il politically correct – è tanto assurda quanto vana. Ma ciò che è vero per ogni linguaggio artistico –il sondare, fino in fondo, ogni movimento dell’anima, per riportarne alla superficie l’essenza in una finzione che è verità della verità – ecco, tutto ciò diventa assoluto per la musica. Nella sua perfetta asemanticità, la musica esprime precisamente quel che abbiamo provato a descrivere. La musica nasce dal silenzio. Si circonda di silenzio. Ritorna al silenzio. Non vuol dire nulla. Non può dire nulla. Traduce un universo di sensazioni ineffabili in segni effabili che, precisi come un ordine matematico, inaugurano mille possibili interpretazioni e ascolti soggettivi. La musica è il luogo elettivo della diversità culturale. La sua esattezza formale, la sua traducibilità universale, il suo messaggio (privo di messaggio), la pura bellezza delle note, il suo esser canto e danza assoluti, ne fanno un linguaggio privilegiato della comunicazione dell’uomo per l’uomo, viaggio in ogni diversità, nella simbologia della diversità contenuta nell’arte della variazione, nelle leggi dell’armonia e della melodia. Mi viene in mente quel che Kerény diceva dei miti: del loro esser simili al capo di Orfeo che, pur reciso, continua a cantare. Penso alla stupefacente scena di Die Zauberflöte di Mozart (Atto I), quando il principe Tamino, che appreso da voci invisibili che Pamina è ancora in vita, colmo di gioia, suona il flauto magico, riuscendo ad incantare gli animali intorno a lui. Improvvisamente, alle note del flauto di Tamino, proprio come con la lira di Orfeo, le belve arrestano la loro furia sanguinaria ed accorrono ad ascoltarlo. É così che i sentimenti tristi diventano gioiosi, gli uomini dall’animo arido scoprono l’amore, la tempesta degli elementi si placa. La musica nata dal cuore della notte prepara l’armonia del mondo: quell’armonia che tanti uomini hanno invano sognato di contemplare. Oppure, si pensi a Tamino che, vedendo il ritratto di Pamina offerto dalle dame della Regina della Notte, se ne innamora senza conoscerla e canta, nell’effusione più immediata, con innata grazia: Io sento che quest’immagine divina di palpiti mi riempie il cuore di nuovo. Il Flauto Magico è una favola per bambini, una parabola per angeli che attraversano l’oscurità e la luce con una palma nella mano. E alle parabole e alle favole, come ai misteri, non si fanno domande. Né ci si può attendere risposte. Perché sono insieme tutte le domande e tutte le risposte. La magia del flauto mozartiano è una figura della diversità culturale perché la bontà e la luce tra gli uomini sono una favola bella, non una verità da mostrare; perché gli stessi intenti massonici-progressisti sono sì presenti, ma sciolti nel puro canto; perché l’armonia del mondo – che dà vita a momenti di pura felicità – è tutta risolta nel linguaggio dell’armonia. Ho detto sin qui di alcune figure e miti del cosiddetto Canone occidentale. In realtà, sebbene il termine ‘universale’ abbia significato troppo spesso la generalizzazione dell’esperienza occidentale in esperienza universale del mondo – come ha osservato l’intellettuale africano Ngugi Wa Thiong’o – è molto difficile parlare di universalità. A meno che non si intenda l’infinito universo, effetto della infinita divina potenzia di Giordano Bruno che, prima di essere mandato al rogo, davanti al Tribunale del Sant’Uffizio di Venezia, dichiarava: Io tengo un infinito universo, cioè effetto della infinita divina potenzia, perché io stimavo cosa indegna della divina bontà e potenzia che, possendo produr oltra questo mondo un altro ed altri infiniti, producesse un mondo finito. Sì che io ho dechiarato infiniti mondi particulari simili a questo della Terra; la quale con Pitagora intendo uno astro, simile al quale è la Luna , altri pianeti ed altre stelle, le qual sono infinite; e che tutti questi corpi sono mondi e senza numero, li quali costituiscono poi la università infinita in uno spazio infinito; e questo se chiama universo infinito, nel quale sono mondi innumerabili. Di sorte che è doppia sorte de infinitudine de grandezza dell'universo e de moltitudine de mondi, onde indirettamente s'intende essere repugnata la verità secondo la fede. Di più, in questo universo metto una providenzia universal, in virtù della quale ogni cosa vive, vegeta e si move e sta nella sua perfezione; e la intendo in due maniere, l’una nel modo con cui è presente l'anima nel corpo, tutta in tutto e tutta in qual si voglia parte, e questo chiamo natura, ombra e vestigio della divinità; l’altra nel modo ineffabile col quale Iddio per essenzia, presenzia e potenzia è in tutto e sopra tutto, non come parte, non come anima, ma in modo inesplicabile.
Basta ascoltare Bruno – ma altre innumerevoli figure potrebbero soccorrerci – per mostrare come l’idea di un Occidente universale è ingenua e profondamente sbagliata. Le costruzioni più alte dell’Occidente sono giunte al termine di guerre drammatiche, al termine di una guerra interiore contro sé stesso, contro la propria volontà di potenza, contro la propria identità. Quest’Occidente cui alludo è l’Arcipelago di lingue e culture aperte e “diffrangenti”, regioni linguistico-culturali che, ben oltre i confini nazionali, sono capaci di ascoltarsi, confrontarsi, accordarsi, lasciarsi penetrare da elementi eterogenei, pur senza rinunciare ad essere se stessi; è l’Arcipelago non della radice unica – come potrebbe mai essere con questa storia alle spalle? – ma quello della ‘traccia’, della radice, che è inevitabilmente radice errante. Quest’idea della ‘traccia’ è la più radicale obiezione alla pretesa universalità dei sistemi di pensiero che ammettono l’identità solo se corrispondente al proprio vocabolario o, per converso, al guazzabuglio indistinto delle identità senza differenze: differenze e alterità che, invece, si incontrano, si aggiustano, si oppongono, si accordano, producendo sempre l’imprevedibile.
A questa “traccia” allude il poeta ebreo-egiziano Edmond Jabès quando scrive “Non ho mai saputo dove mi trovavo”. “Quando ero in Egitto, ero in Francia. Da quando sono in Francia, sono altrove ... Lo straniero non sa più quale sia il luogo”. Mancanza di luogo, impossibilità di sentirsi a casa propria, appartenenza fragile e ambigua a un paese ostile alla differenza, essere altrove, volontà di non-assimilazione, erranza: questa la condizione di Jabès, scrittore del deserto. La stessa di tanti altri scrittori del deserto – come molti scrittori maghrebini – che, sospinti dal vento dell’erranza ed esuli in non importa quale lingua – francese, italiano o altro ancora – cercano l’orizzonte dove il singolare e il molteplice tornano a riunirsi. Singolare e molteplice che si incontrano e si scontrano confluendo nella scelta della lingua che de-cide i pensieri. Sempre, tuttavia, nel migrare – nella migrazione che è dimora della scrittura – vi è apertura gratuita al dono, grazia del dono che nulla attende in cambio.Questa “pluralità irriducibile”, per usare un’espressione di Hatibî é la ricchezza, come afferma Jean Pélégri, francese d’Algeria, dello scambio reciproco: “Per quanto mi riguarda, e comunque la si pensi, se scrivo in francese, in una lingua d’erbe e foreste, mi accade spesso, prima di scrivere, di pensare in arabo, di sentire in berbero, di riconoscermi e identificarmi sotto il segno dell’ulivo, del wadi e del giabal. E l’Algeria resta per me, che lo si voglia o no, la mia terra e il mio granaio, la mia fonte, il mio dominio interiore. Rivendico, in nome dello scrittore, questa dualità”. Cambiando registro, l’armonia del mondo di cui prima dicevo – di questo mondo carico di tensioni e conflitti – è tutta in quelle scoperte che portano alla luce gli ordini e le relazioni spontanee di uomini e società, nelle tradizioni, nelle reti delle comunità scientifiche, nelle dinamiche di cooperazione e concorrenza, nelle interazioni virtuali e reali di comunità di piccole dimensioni. La ritroviamo in quei processi di razionalità limitata; nelle fedi religiose; nel riconoscimento della responsabilità umana; nella scelta tra il bene e il male: nel bene che rende il mondo più abitabile e degno dell’uomo. Ciò di cui parlo è un orizzonte di valori umani esposti alle radiazioni della storia e che non si pretendono immortali. Valori in cammino per uomini degni di questo nome e che non si illudono di essere dio. Uomini che, in forza di questa consapevolezza, possono dare il meglio di sé per migliorare un frammento di mondo. Ma come si perviene a tutto ciò? Io credo sia possibile, a condizione di muovere da una posizione diversa da quella di gran parte delle filosofie moderne. Cominciando, cioè, non da un paradosso o da un assurdo, ma dall’evidenza naturale delle cose e degli uomini. In questo senso, il pensiero deve riscoprirsi fedele alla terra, ritrovare alimento dai sensi. La gran parte delle cose che conosciamo la dobbiamo a ciò che vediamo, ascoltiamo, assaporiamo e tocchiamo. In questo senso, pensare non significa congedarsi dal mondo in vista di un luogo più degno per il nostro pensiero. Pensare è guardare il mondo con il senso della sorpresa e dell’accoglienza, è vedere cose già viste con lo sguardo della prima volta: quello sguardo che ci rimette in cammino verso la terra del mattino, che è il nostro oriente. Tante evidenze, presupposte in ogni pensiero e in ogni azione, sfuggono abitualmente alla nostra attenzione perché di continuo sotto i nostri occhi. Che strano paradosso! Le cose più importanti son quelle di cui ci si dimentica più facilmente. Credo che i filosofi e i poeti abbiano il compito di ricordare queste cose che danno dignità e drammaticità alla condizione umana. L’uomo arriva sulla scena del mondo a dramma già iniziato. Fa ingresso in una scena che esisteva prima della sua nascita e che, con ogni probabilità, continuerà a esistere dopo la sua morte. Tutto ciò che vive nel mondo – ogni conoscenza, ogni azione – reca i segni della pluralità e della contingenza. La volontà di potenza che alberga nel cuore umano non troverà mai pieno compimento. È questa finitezza – che l’uomo condivide con altre entità viventi – a farne un essere contingente. Ma c’è qualcosa che lo rende del tutto originale: la libertà: la libertà che fa della storia il luogo di un evento irriducibile a schemi logici e necessari. Singolare condizione quella umana: ci sentiamo naturaliter solidali col mondo e, al tempo stesso, siamo esposti continuamente ad esperienze che rivelano la nostra finitezza. Questo deve indurci a riconoscere che non siamo tutto: la nostra origine, la nostra fine, il mondo, l’esperienza della libertà (nostra e altrui), sono gettati nel campo aperto e imprevedibile della storia. Invece di percepire la realtà come un mistero inappropriabile, l’uomo si lascia catturare dalle potenze estranianti di un mondo pensato, congedandosi dal mondo reale. In questo simulacro di realtà – ovviamente più facilmente abitabile e controllabile – il rischio della libertà viene esorcizzato, il dramma della contingenza neutralizzato. Lo scientismo moderno è interamente incardinato su una logica che tenta di spiegare i fenomeni in rapporto alla loro suscettibilità ad esser ridotti a un ordine matematico. L’atteggiamento scientifico moderno – che spinge l’uomo a indagare e sondare i misteri dell’universo fino ai suoi confini più estremi – ha quest’origine perfettamente tautologica. Attraverso la matematizzazione generalizzata la scienza moderna non apre l’uomo al mondo, ma lo chiude entro schemi predefiniti. Tendenza fondamentale della filosofia e della scienza moderna è quella di ridurre tutte le esperienze del mondo ad esperienze tra l’uomo e se stesso. Inoltre, se l’esperimento e la sua riproducibilità illimitata hanno accresciuto di molto il potere dell’uomo, lo hanno respinto, al tempo stesso, nella prigione della sua mente, entro schemi da lui stesso creati e dove incontra solo se stesso. Dunque, con il sorgere della modernità l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla realtà non è più lo stupore e la gratitudine, ma il dubbio e il risentimento: risentimento contro “tutto ciò che è dato, anche contro la propria esistenza”; risentimento contro “il fatto che egli non è il creatore dell’universo, né di se stesso”

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